Il biennio 1977/1978 è un periodo focale nella vita artistica di Eno ma, contrariamente a come accade di solito, è un momento sia di straordinaria lucidità che di passaggio. Due sensazioni che paiono antitetiche, ma che nella mente del creativo di Woodbridge corrono assieme, probabilmente a testimonianza di una sensibilità sì curiosa verso nuovi stimoli, ma anche estremamente rapida a coglierli e ad organizzarli in forma più o meno compiuta.
Fu quindi un momento di grande turbinio creativo* e di cambiamenti di prospettiva: è dal 1978, infatti, che il Nostro comincia a dedicarsi sempre di più alle sue grandi mappe sonore di musica ambientale, provando a portare avanti un discorso estetico musicale - quello della “musica d’arredamento” - al quale, anche se non lo “inventò” propriamente lui, come spesso si dice o scrive**, Eno ebbe l’indubbio merito di portare in dote elementi sonori e concettuali nuovi. Idee alle quali oramai siamo talmente abituati da considerarle come architravi fondamentali della musica ambient.
E’ una parte del viaggio di esplorazione "eniana" che ci conduce attraverso grandi specchi sonori e una profonda investigazione dello studio di registrazione come strumento creativo e non solo come luogo di cattura e riproduzione del suono; ed è un itinerario scritto dove mancherà consapevolmente un album clamoroso e fondamentale, vero Zabriskie Point della musica ambientale: siete avvisati. Oltre a queste cartografie sonore, però, c’è qui spazio anche per un’altra, seminale, collaborazione in un ambito musicale del tutto diverso da quello della musica d’ambiente.
Ambient 2: The Plateaux Of Mirror [1980] - “The Plateaux of Mirror” è il secondo capitolo della seconda quadrilogia eniana: quella ambient. E’ un disco composto a quattro mani con Harold Budd, pianista americano che, pur se profondamente influenzato dal jazz, riuscì a coniugare uno stile pianistico minimale e talmente personale da risultare assolutamente radicale. Budd viene invitato da Eno ad improvvisare al piano, rispondendo ad un ambiente sonoro che Brian stesso aveva preparato appositamente lui; l’inglese poi interverrà in sede di postproduzione per rimodellare i suoni delle improvvisazioni del pianista americano. Le placide ed eteree melodie del piano - l’iniziale “First Light”, con il suo tono meditabondo e lunare è esemplare - si incontrano con le stanze sonore di Eno, in una pozza di melanconia cristallina che è il seme primigenio di tutta l’ambient cosiddetta neoclassica.
Fourth World, Possible Music Vol 1 [1980] - Altro giro, altra collaborazione, questa volta con lo sciamanico Jon Hassell, trombettista di Memphis che prima fu stregato da Miles Davis, planò in Germania per studiare composizione con Stockhausen e poi finì in India a cercare di carpire i millenari segreti del canto e della musica tradizionale indiana. I due si conobbero a New York, dove Eno da un po’ abitava, dietro le quinte di un concerto del trombettista, all’epoca misconosciuto musicista d’avanguardia. Il nostro, che aveva fiuto per i talenti, propose ad Hassell di collaborare e il risultato, “Possibile Music” è un allucinato dipinto fatto di gorgoglii percussivi, tappeti di sintetizzatori dilatati e dall'iconico suono della tromba del musicista americano che pare più un flautato ronzio primordiale. Una commistione tra le astrattezze del “terzo mondo” - africano, latino ed asiatico - e le rigorosità del “primo” - europeo: il quarto mondo appunto, un concetto sonoro che solo un profondo etnomusicologo come Hassell poteva concepire. L’ambient music di stampo world parte da qui.
My Life In The Bush Of Ghosts [1981] - Dopo una manciata di album come loro produttore, Eno prese da parte David Byrne dei Talking Heads e iniziò un lavoro a due. Consumatori onnivori di ogni suono che potesse provenire da Africa, Asia e Sud America - in particolare, si scambiavano frequentemente cassette della sempre benemerita etichetta francese Ocora, impegnata in un mirabile lavoro di documentazione sonora di luoghi al tempo difficilmente accessibili - e messi sotto scacco dalla musica di Fela Kuti, i due realizzano un lavoro seminale, a metà tra l’urgenza ritmica di Byrne ed esperimenti di cut and paste ad opera di Eno. Non stupitevi quindi di trovare in questo disco cantilene di sconosciuti cantanti arabi presi da rare raccolte altrui di musiche folkloriche mondiali catturate da etnomusicologi e poi trapiantate nel disco e mixate a ritmi funk; registrazioni di preti esorcisti americani e pulsazioni dalla cadenza fittissima; muezzin che recitano il Corano sopra improbabili chincaglierie e chitarre acidissime. Era l'apogeo del sampling***, una cosa da niente.
Ambient 4: On Land [1982] - Ritornato in solitaria, Eno completa la sua opera cartografica di mappe sonore ambientali con “On Land”. Questa volta a comporre la scena acustica del musicista britannico ci sono ovviamente i sintetizzatori, ma anche oggettistica e suoni naturali: è una svolta verso la musica concreta**** come elemento pittorico della tela d’ambiente. E’ un disco che è meno etereo degli altri e più concatenato al reale - non è un caso che per la prima volta i titoli dei brani suggeriscono anche luoghi esistenti -, maggiormente incentrato su delle basse frequenze che ribollono magmaticamente sotto i trapestii sonori di Eno e di alcuni suoi collaboratori - Jon Hassell, Daniel Lanois*****, Michael Brook tra gli altri -; il quadro è rigoglioso ma minaccioso quanto la natura incontrollata. Nell’album tutto, ma in particolare in pezzi dalle tinte cupe come “Tal Coat”, dove al brodo primitivo dei synth si uniscono buie bordate di basso, si scorgono i semi di quella che diverrà la dark ambient.
Thursday Afternoon [1985] - Questa soffice nuvola acustica di 60 minuti è la colonna sonora per un video raffigurante 7 quadri di corpo di donna realizzati da Eno; dipinti che poi ha ripreso personalmente su pellicola. Da guardarsi “normalmente” o da semplicemente intravedere passandoci accanto, “Thursday Afternoon” è uno dei primi tentativi di unione tra musica e arte pittorica ds parte dell'albionico. Timbricamente è un album costruito su tenui e giocciolanti note di piano, diversamente tagliate e cucite con i loop, e ancore lineari di sintetizzatori: e se non sono gli elementi ad essere particolarmente innovativi, ad affascinare è la beata suggestione di sospensione di questi stessi ingredienti, con quel grappolo di note sempre posizionate al posto giusto, nel rispetto di tempi sonori estesi come un sospiro universale. Non un risultato da poco, per musica che in teoria dovrebbe fisicamente contenersi tra quattro mura. E' il punto quasi definitivo su quel concetto di “musica discreta” che ammaliò il compositore nel 1975: una musica che non si impone, ma che al tempo stesso crea l’ambiente sonoro, cambiando di volta in volta che muta la nostra percezione del reale. Musica che concretamente interagisce con noi, sia che ci accorgiamo di lei, sia che non le prestiamo troppa attenzione.
Lux [2012] - L’Eno “anziano” ha sicuramente esaurito la sua spinta propulsiva; e probabilmente non è “Lux” il lavoro migliore del suo periodo contemporaneo******. Ma questo disco, il secondo pubblicato per la Warp - come dire: l’etichetta di elettronica contemporanea per antonomasia che pubblica un padre dell’elettronica… -, ci permette di parlare dell’ultima, vera, deviazione nella musica eniana: quella della musica generativa, ovvero musica creata con un iniziale input umano, ma che poi si combina e ricombina da sé tramite algoritmi, in maniera infinitamente uguale o infinitamente diversa - scegliete voi - , in una dicotomia tra naturale e artificiale che è tipica dei nostri tempi. Il disco è una fotografia di un' installazione sonora curata dal musicista per un'esposizione alla Reggia di Venaria Reale - ancora quella liason tra musica e arte... - e in particolare nell'ambiente della Galleria Grande; i timbri tersi di chitarra, violino, piano e tastiere lo accomunano ad altri lavori del compositore inglese e sicuramente per essere apprezzata appieno andrebbe gustata sul posto, in quel corridoio dai lussuosi stucchi barocchi e amplissime vetrate luminose. Ma “Lux” incuriosisce perché è testimonianza dell’ultimo passo possibile per le musiche d’ambiente: sradicati i limiti fisici della riproduzione “meccanica”, ci si possono ora promettere e permettere sfondi sonori in perpetuo e infinito mutamento, tanto da somigliare allo scorrere di un fiume, così placido e uguale a sé stesso a prima vista, ma ad occhio attento in realtà sempre diverso. Esattamente come Eno aveva pensato alla musica ambient quasi 35 anni prima nelle note di copertina del programmatico “Music For Airports” ******
Arrivati.
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