4. Duke Ellington, Coleman Hawkins - Duke Ellington Meets Coleman Hawkins

 



Per fortuna che non erano marinai.

Da una parte, Duke Ellington: direttore d’orchestra, arrangiatore e, senza timore di smentita, il maggiore compositore della storia del jazz. Dall’altra, Coleman Hawkins, ovvero  il papà del sassofono nella musica improvvisata americana. Affermazione questa, che in realtà è si temibile di smentita: almeno, stando ad Hawkins stesso*. Sia come sia, quasi tutti concordano sulla centralità della figura dell’uomo proveniente dal Missouri per lo sviluppo del sax nel vocabolario del jazz, dato che prima di lui la celebre invenzione del Sig. Adolphe era strumento da vaudeville.

Ellington e Hawkins: due figure nate agli albori del '900 e che sarebbero state importantissime, ognuno a modo suo, in più di un età della storia del jazz; in particolare, furono protagonisti musicali indiscussi degli anni ’30 e ’40, un periodo di fulgore per la musica improvvisata americana. Ed è proprio durante gli sconvolgenti anni ’40 che i due cominciarono ad annusarsi: all’epoca, Ellington era semplicemente il leader della migliore orchestra jazz degli Stati Uniti, e quindi del mondo; Hawkins, invece, era appena tornato in patria dopo un soggiorno in Europa che doveva durare pochi mesi e invece si prolungò per 5 anni, interrotto solo nel 1939 per comprensibili cause di forza maggiore. Il suo ritorno a New York fu chiaccherato come il rentrée di un apostolo pagano**, tanto per far capire quanto fosse tenuto in considerazione dai jazzman della Grande Mela. Che i due si conoscessero, insomma, era un fatto del tutto naturale e il pensiero di incidere qualcosa assieme era vagheggiato da entrambi già ai tempi, aiutata anche dal fatto che Hawkins era un adoratore di Ellington (non che fosse l’unico della fila...).

Poi si sa come vanno spesso queste cose, nel jazz in particolare: ci si vede, uno va ai concerti dell’altro e viceversa, ci si saluta dietro il palco, ci si confronta più o meno cordialmente sugli ultimi rispettivi lavori, e, sempre tra una chiacchera e l’altra, ci si ricorda mutualmente che “si, qualcosa insieme dobbiamo proprio farla”.  Ma poi non se ne fa nulla e le buone intenzioni vengono meno, svanendo con la stessa rapidità con cui erano venute; proponimenti che, esattamente come quando la coltre di fumo che impregna i locali di Harlem incontra l'aria fredda proveniente dalla strada, si dileguano confondendosi con mille altri. Se non fosse che, stavolta, i due non ci stanno a piegarsi all’ineluttabilità dell’esistenza jazzistica e si incontrano in una giornata di Agosto del 1962*** mantenendo cosi la reciproca promessa, pur se “solo” un ventennio dopo. Ma basta un’occhiata, una chiacchierata e quei vent’anni è come se fossero volati, esattamente come volavano le dita di Hawk sul sax.

La discrasia temporale tra il dire e il fare sembra influenzare anche lo spirito del disco: “Duke Ellington meets Coleman Hawkins” somiglia ad un lavoro degli anni ’40, ma registrato (benissimo) negli anni ’60. Ellington, per l’occasione, chiama alcuni dei migliori solisti della sua orchestra (uno per tutti: il fenomenale sax alto di Johnny Hodges, che suonava con Ellington dal 1928!), per una sezione fiati a cinque voci. E qui sta il bello dell'album e, se vogliamo, una parte del multiforme genio del Duca: nonostante la formazione sia ridotta (ottetto), il suono, i colori che questi cinque fiati riescono a creare li fanno sembrare almeno cinque in più, tra temi all’unisono e voci strumentali che si rincorrono e si mescolano in una trama cosi fitta da non lasciare scampo all’ascoltatore.  

Pronti, via e nello spazio di tre secondi si è già catapultati in un’altra dimensione sonora, che poi è sì l’essenza acustica di un’epoca; ma è un suono di tale eleganza, vitalità e passione da essere ormai un classico fuori da ogni tempo. Proprio l’iniziale “Limbo Jazz” è un manifesto di cosa sia il jazz: il piano stride, il tema a più voci all'unisono che è di un’immediatezza disarmante*****, i fiati che conversano tra loro, la successione dei solisti che intervengono man mano; il tutto sopra un ritmo afro-latino scandito dal batterista Sam Woodyard il quale, non contento di marcare il tempo a modo suo, si lancia in un canto ancestrale in contrappunto al suo stesso ritmo, in evidente richiamo a quelle celebri e chiassose processioni funebri di New Orleans che del jazz furono un po’ il seme primigenio. Un classico, appunto. Sempre in tema di equilibrismo tra antico e moderno, il dirompente blues “Wanderlust”, brano scritto a quattro mani da Hodges e Ellington, è profondamente segnato da un lato da dei soli melodicamente mirabili e dall'altro da una ritmica che funge da una preziosa ancora per tutto il gruppo, con quell'incedere vagamente zoppicante e malfermo che è un diretto richiamo alle origini del jazz, cosi legate alla musica nera del Delta. L’improvvisa comparsa di un breve raddoppio ha il gusto di una sfida lanciata da basso e batteria all’ensemble di fiati, che rispondono ruggendo il tema nei rispettivi microfoni; solo la cornetta di Ray Nance è ha licenza di agire in contrappunto come meglio crede, liberando la sua voce stridula e acuta in una vera e propria invocazione sonora. Sicuramente, uno dei momenti più intensi di tutto il disco. 

Fin qui poco si è detto di Hawkins: ma è la prova di quanto funzioni questo connubio, con “Bean” che è, alla bisogna, colore  primario o secondario di quella straordinaria tavolozza che è l’orchestra di Ellington, tanto da sembrare un suo membro più o meno da sempre*****. In particolare, la formazione lascia ampio spazio al tenorsassofonista nelle due ballad del set: “Self Portrait (Of The Bean)” e sopratutto in “Mood Indingo”, classico del Duca che qui Hawk interpreta in maniera magistrale, con un lungo assolo sciorinato con una naturalezza quasi imbarazzante. Il suono del sassofonista sa essere pieno, corposo e felpato allo stesso tempo; le sue frasi sono brevi, articolate ma limpide, sempre perfettamente in controllo di ogni registro. La “piccola orchestra” alle sue spalle ne impreziosisce i fraseggi con fugaci interventi in pianissimo, perfetti nell’inserirsi nello spazio solistico senza soffocarlo. C’è poi tempo, in chiusura, per l’affascinante “The Ricitic”, brano dai toni sensuali e misteriosi e dal sapore decisamente inusuale, anche grazie alla scelta di impegnare Nance al violino (!): un azzardo timbrico che conferisce al tutto un eco folk, in una  sorta di metaforica cartolina sonora di un notturno dal Sud degli States. Ellington, da par suo, agisce in contrappunto con brevi e saltellanti note di pianoforte, che ricordano vagamente il Debussy di “Golliwogg's Cakewalk” ******; Hawkins, invece, gestisce il tutto con la solita, imperturbabile, classe, lasciando li sul nastro uno dei suoi migliori assoli della session.

Ma delle nubi comparvero presto nel cielo dell'esistenza del sassofonista: di li a pochi anni apparve depresso e malcurato (lui che, come Ellington, alla presenza teneva moltissimo), probabilmente anche a causa di un difficile rapporto amoroso con una donna di quarant’anni più giovane di lui. "Hawk" si spense nel 1969; ma aveva fatto in tempo a mantenere la sua promessa con il Duca, regalandoci uno dei più belli e leggiadri voli della sua vita artistica. 

Ellington e Hawkins: per fortuna che non erano dei marinai. In tutti i sensi.  

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* Intervistato in merito, Hawkins ha sempre accennato a 4/5 strumentisti del Midwest degli USA che già suonavano il sax come strumento solista in ambito jazzistico, quando lui inizio a farsi notare. 

** Rientrato in patria, Hawkins si fece vedere ad Harlem in vari club. Molti sassofonisti si affrettarono ad esibirisi di fronte a lui, cosa che divertì non poco Bean. Tra questi anche il grande Lester Young, che con Ben Webster e lo stesso Hawk rappresenta un po' il triumvirato del sax jazz di quegli anni. Con la partenza di Hawkins per l'Europa, Young era divenuto il sassofonista più apprezzato e seguito a New York, tanto che per ancora oggi si parla di "Hawksiniani" e "Youngiani" per riferisrsi a due scuole di sassofonisti differenti. Dopo un po' di giorni dal suo rientro, "Bean" suonò finalmente in pubblico, dimostrando di essere ancora uno in grado di dire ampiamente la sua.

*** L'occasione per l'incontro venne offerta a Duke nell'ambito di una serie di dischi in cui il bandleader "incontrava" altri grandi nomi del jazz. Oltre al disco con Hawkins, Ellington fu impegnato nel celebratissimo [ma per me non troppo riuscito] disco con Coltrane e in un incisione con Charles Mingus e Max Roach, il particolare "Money Jungle". Richiesto di un parere sulla qualità di quelle registrazioni, Miles Davis le stroncò senza troppi complimenti, dicendo che erano frutto di una assurda scelta della casa discografica e che Ellington meritava molto di meglio. 

**** Una cosa che un po' manca al jazz moderno. Purtroppo. Detto da uno che apprezza il jazz contemporaneo.

***** La naturalezza con cui Hawkins si inserisce nelle trame orchestrali di Ellington probabilmente deriva anche dalla maturata esperienza del sassofonista con l'orchestra Fletcher Henderson, che fu lo  scopritore di Hawkins.

****** Cosa che non pare un caso: in realtà è proprio Debussy che affermava di essersi ispirato al suono che in quegli anni giungeva dall'America per alcune movimenti della sua Children's Corner del 1908, suite di cui quel brano era parte. 


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Duke Ellington, Coleman Hawkins - Duke Ellington Meets Coleman Hawkins (Impulse!, 1962)

Duke Ellington - Conduzione, piano
Coleman Hawkins - Sax Tenore
Ray Nance - Cornetta, violino
Lawrence Brown - Trombone
Johnny Hodges - Sax Alto
Harry Carney - Sax Baritono, Clarinetto
Aaron Bell - Basso
Sam Woodyard - Batteria

Registrato da Rudy Van Gelder al Van Gelder Studio, Englewood Cliffs, NJ, il 18 Agosto 1962
Prodotto da Bob Thiele




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