Lo ricordo un po’ vagamente quel 2009, ma lo ricordo. Musicalmente parlando, alla fine di quel decennio ebbi un paio di rivelazioni dalle quali resto piacevolmente tenuto sotto scacco ancora oggi. Tuttavia, come mi accorsi solo dopo, il panorama musicale andava invece da un’altra parte rispetto alle mie recenti scoperte. Questo per dirvi in maniera garbata che io quando uscì questo disco non c’ero. E se anche ci fossi stato, dormivo.
Non
c’ero per questo disco, è vero. Ma le coordinate
geografico-musicali collettive di quel periodo me le ricordo: l’indie fluttuava
tra due stelle polari, con il recupero di certe sonorità sixties da una parte e
di quelle folk dall’altra; l’elettronica era appena stata scossa dall’arrivo
della dubstep; il jazz, che come al solito è un atollo che non comunica con
(quasi) nessuno, stava cercando di riprendersi dall’ennesima prematura
scomparsa di una di quelle figure che provano ogni tot anni a collegare l’atollo con la terra ferma (Esbjorn, mi
manchi).
In
tutto questo, a fine maggio esce il nuovo disco dei Grizzly Bear.
Ma
il punto è: chi sono questi Grizzly Bear? Un gruppo indie americano che con “Veckatimest” approdava, con un po’ di
rumore, al terzo album. Uno stile sonoro che mescola basi folk e rock con una
vocalità sixties e richiami jazz e che faceva del gruppo una delle più facilmente mantenibili promesse in ambito
indie. Sia ben chiaro che io tutte queste cose su di loro le avrei scoperte
anni dopo: a quel tempo ero tra le braccia di Morfeo, come detto.
Veckatimest
fu scritto e registrato in scenari diversi, tra uno studio a New York e una
chiesa a Brooklyn, ma con un panorama ben fisso in mente: Cape Cod, nel
Massachusetts, dove il gruppo spese li del tempo, in una sorta di buen retiro creativo e dove nacquero i primi germogli del disco, tra rilassate e
collettive sessioni notturne. Lo stesso titolo del lavoro è preso pari pari dal
nome nativo di un’isola, grande come un monolocale, situata poco più a sud di
Cape Cod. E’ importante ricordarlo perché la geografia fisica dei luoghi ha direttamente
infuso la geografia musicale del disco. Con "Veckatimest", i Grizzly Bear
compiono il sortilegio: mettono in musica quell'atmosfera tipica da isola
semideserta, a metà tra il sogno e il mistero.
Gli ingredienti dell'alchimia sonora del quartetto qui spaziano tra delicati intrecci acustici folk e impreviste impennate dinamiche, in un rigoglio di suoni, tocchi e respiri che ricorda il brumoso trapestio sonoro della natura, udibile appena l’uomo volta la testa dall'altra parte. Così sono “Southern Point”, ideale entrée nel mondo sonoro dell’album, con i suoi sinuosi intrecci di chitarra jazzata (il chitarrista Daniel Rossen, che della band costituisce mezzo cervello, è un fervido ascoltatore di jazz e classica) e batteria in levare a fare da contraltare a momentanee deflagrazioni dinamiche che squinternano per brevi momenti il cicalare di tutto un sottobosco di intarsi strumentali; o il saliscendi emotivo di “All We Ask”, pezzo composto ad otto mani e guidato dal senso della dinamica del batterista Chris Bear (!), abile intelaiatore di poliritmie dal fortissimo accento jazzistico. Più sornione sono le semiacustiche “Dory” e “Hold Still”, episodi che ad un ascolto distratto potrebbero apparire minori ma che in realtà non sono che un’altro capo dell’isola acustica di Veckatimest. Il primo è un brano che in pochi minuti condensa idee che valgono per dieci: la serenità dell’iniziale inciso corale a due voci viene improvvisamente disturbata dall'apparizione di una nube inaspettata, tra scuri tocchi di chitarra e voce solitaria; il quadro sonoro va poi a risolversi in una nuova rilassata apertura melodica e ritmica dal sapore sessantiano. Il secondo è un acquerello per voci, chitarra e riverberi* firmato da Rossen, con l’arpeggio che pare lo sciabordio di una nave sull'acqua.
La
ricerca per il colpo di fino negli arrangiamenti**, che hanno il pregio di essere
lussuriosi ma misurati, ponendosi “dentro” la melodia e non dietro e né davanti
ad essa (cosa non facile, quando utilizzi perfino un coro) non fa venir meno una notevolissima capacità melodica: in fondo
stiamo parlando di un disco di grandissime canzoni. Come la celebre “Two Weeks”,
brano che consegnò i brooklynesi alle luci della ribalta (tanto che fece la sua comparsa anche in un episodio di “How I Met Your Mother”) e che unisce
in maniera curiosa basso fuzz, ritmica debitrice dei poliritmi alla Elvin Jones
e aperture vocali dagli echi beatlesiani. Ma forse la miglior dimostrazione
delle capacità a tutto tondo dei quattro è quella “Ready, Able” che rischiò
fino all’ultimo di non far parte del disco. Inizia nervosa e tesa, con una linea
di basso che sembra uscita dal mondo post punk, per poi rivelarsi, a poco a poco
e tra mille squarci, in una fiabesca apertura melodica finale in ¾ dal chiaro
sapore radioheadiano. Un momento che è un po’ la sublimazione emotiva del disco;
un trovarsi davanti l’infinità del mare dopo aver attraversato uno stretto
sentiero che vi conduce.
Mare
per il quale idealmente si salpa con la finale “Foreground”, vecchia
composizione del cantante Ed Droste e tenuta nel cassetto per un’occasione speciale.
Pianoforte lo fi arpeggiato, voce, piccole incursioni di fiati e poi l’apparizione
di un coro. Un raro approccio più minimalista, in un album cosi ricco e
lussureggiante: eppure è il saluto
ideale di un disco che ha il sapore di quelle giornate tardo primaverili quando,
tra profumi e suoni, tutto sta per sbocciare.
Grizzly Bear, Veckatimest
Daniel Rossen - Guitar, vocals, keyboards, string arrangments
Ed Droste - Vocals, guitar, keyboards, omnichord
Chris Taylor - bass, woodwinds, backing vocals
Chris Bear - drums
Produced by Chris Taylor
Additional Musicians: Nico Mulhy, Brooklyn Youth Choir, Acme String Quartet, Victoria Legrand
Recorded at Alliare Studios, New York; Cape Cod, Mass; a Ny Church
Published by Warp (!)
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*riverberi ottenuti registrando le voci direttamente sopra le corde del pianoforte. Per Rossen, questo brano rappresenta l’essenza del periodo trascorso dalla band a Cape Cod.
** alcuni dei quali sono curati da Nico Mulhy, alievo di Philip Glass, collaboratore di molti aritsti del panormama indie rock e licenzatario di opere solistiche variegate, tra cui segnalo l'ultima: "Peter Pears: Balinese Cerimonial Music", con Thomas Bartlett, ed. Nonesuch
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