6. Wayne Shorter - The All Seeing Eye


Sono abbastanza convinto che Dio creò il mondo perché quel giorno si annoiava. Stanco di costringersi attorno al drappo nero del Cosmo, mise su una tazza di caffè e decise che era l’ora darsi da fare, pensando ad una cosa da niente come la Vita. 

Qualche tempo dopo, e più precisamente nel 1965 a New York City, un altro caffè stava bollendo sul fuoco, nella cucina della casa di Wayne Shorter. Ma il caffè non era l’unica cosa a ribollire, tra quelle quattro mura: la mente stessa di Shorter era una fucina di idee e la musica gli scappava letteralmente dalle dita. Il momento epifanico - ma non inaspettato, perlomeno per chi seguiva da un po’ le visioni del giovane sassofonista, egualmente disinvolte sia sui tasti del sax che con la penna davanti al foglio pentagrammato -  giunse nell’agosto del 1964 e perdurò per tutto l’anno successivo, in un periodo di diciotto mesi di lucido incanto compositivo. In quel momento, Shorter era come un frutto definitivamente maturo e pronto a cadere dall’albero; e quando lo fece rivelò un gusto e un sapore straordinari*


Fu proprio durante quel periodo di floridezza e pinguedine creativa che, sempre davanti alla moka che gorgoglia, nella mente Nostro cominciò a vagheggiare l’idea di un lavoro musicale che provasse a descrivere in note l’avvenimento della Creazione e i relativi stati d’animo del Grande Capo; un argomento che non sorprende abbia stimolato la curiosità del sassofonista americano, ugualmente interessato alla musica come alla scienza e alla filosofia. 

Così, in una mattina di Novembre di metà anni ‘60, Shorter prenota una session di registrazione negli studi della Blue Note** nel New Jersey, spartendosi lo spazio - acustico, ma anche fisico! - con una numerosa cricca di musicisti con cui ha condiviso esperienze musicali passate o presenti***: un settetto che, oltre alla canonica sezione ritmica di piano, contrabbasso e batteria, prevede una nutrita presenza di strumenti a fiato (tromba, sax alto e trombone) ad accompagnare il sax tenore di Wayne. 


La ricca tavolozza timbrica conferita dalla presenza di tanti pregevoli strumentisti appare il mezzo adatto per cercare di descrivere in musica un argomento così vasto come l’avvento dell’Universo. L’apertura della titletrack è al fulmicotone: dopo un iniziale tema circolare a tempo libero a cui le voci dei fiati si uniscono pian piano, si assesta una ritmica ai limiti del vertiginoso. Se il primo assolo,  lasciato alle giovani ma robuste guance del trombettista Freddie Hubbard, è bruciante e schietto come è nel suo stile, già gli interventi successivi di Shorter e di Herbie Hancock - ispiratissimo al pianoforte - suggeriscono paesaggi sonori più inquieti ed esplorativi; un vero legame a doppio filo tra i due musicisti che percorrerà tutte le pieghe del disco. Il veloce assolo del leader rimanda a certi stilemi coltraniani, ma il suo timbro brumoso e roco e le sue frasi brevi ed ellittiche sono ingredienti del tutto personali: Shorter, a differenza di Coltrane, nei suoi assolo sembra più interessato a porre domande che non a dare risposte. La successiva e ambiziosa “Genesis” si apre  ad orizzonti ancor più estesi, come il titolo stesso vuole suggerire, con ampie parti strumentali che lambiscono il territorio del free jazz e dell'avanguardia. Il feroce tema cantato all’unisono è una esplosione primordiale acustica; i successivi soli, su tempo libero e dai toni molto assertivi,  paiono in effetti ispirarsi al processo, flemmatico, di Creazione della vita: su tutti, è prezioso l’intervento del trombonista di Grachan Moncur, che disegna linee suggestive per una danza in assenza di gravità; la chiusura "aperta" della suite, affidata ad una imperiosa figura di piano dai toni classici che poi Herbie Hancock "sporca" sul finale, quasi a volerne smorzare i toni, si rifà all'idea della Creazione come un processo in costante divenire.


Nell’ ispirarsi agli eventi primigeni del cosmo e del mondo, Shorter non poteva non pensare all’Uomo e alla sua venuta. Il giudizio dell’artista sull’Uomo come creatura tra le creature è già rinvenibile dal titolo del terzo brano, eloquentemente chiamato “Chaos”; e se ciò non bastasse, il ritmo minaccioso e teso della ritmica, l’assolo fulmineo - tutto giocato sui sovracuti -  dalle sonorità stridule di James Spaulding, altosassofonista dal timbro acre e asprigno, e il finale intervento di Hancock che arriva a toccare vette sorprendenti di vera malignità musicale, non dovrebbero lasciare dubbi. 


L’arrivo dell’Uomo ha creato così tanto trambusto che lo stesso Dio si trova, per un momento, spiazzato. Se l’essere creato a sua immagine e somiglianza crea così tanti disastri, bisognerà che anche il Creatore si faccia qualche domanda. Commento musicale ideale per la seduta psicoterapeutica a cui si sottopone l’Onnipotente**** è “Face Of The Deep”, probabilmente il pezzo più enigmatico mai scritto da Shorter. I toni si fanno solo apparentemente soffusi: dietro l’estrema calma del brano si nasconde una palpitante tensione alla quale Hancock è bravo ad attingere, lanciandosi in un solo minimalista e profondamente ambiguo - cosi diverso dal suo stile abituale! - che lascia l’ascoltatore con un vero rompicapo sonoro tra le... orecchie.


A furia di porsi domande è evidente che l’Altissimo si sia distratto: una sbadataggine di cui ne approfitta subito qualcuno. Dal centro della Terra appena creata sbuca il Diavolo (se potessi scegliere un disco jazz da far ascoltare a Dante, sarebbe questo): “Mephistopheles”***** è il sabba finale, una danza macabra che sale lentamente come il fumo inebriante che impregna le viscere del Creato: la ritmica insiste incatenandosi su un ostinato per quasi tutto il brano, ma la batteria e il piano ogni tanto hanno licenza di svariare, aggiungendo fosche pennellate al quadro che i solisti stanno dipingendo. In questo gioco di rimandi, sono ancora Shorter ed Hancock a dimostrare di condividere una profonda comunanza di idee; le sinuose linee di sax vengono continuamente intrecciate da commenti del pianoforte in contrappunto, tanto che le une paiono la naturale continuità delle altre. I toni sono lugubri ma senza essere furiosi: il solo di trombone è deliziosamente serpentino e non va mai oltre una dinamica del piano, con la sola tromba di Hubbard ad innalzare leggermente il tono acustico. Ancora e anche qui si insiste su una visione sonora che gioca più sull'oscurità e la paura derivante dall’ignoto; e d’altro canto si sa, il Diavolo è pericoloso perché è mellifluo, seducente, tentatore e solo in seconda battuta spaventoso. L’unica concessione al dramma avviene nel finale, con l’urlo belluino dei fiati a chiudere un disco che lascia il tutto in uno stato di sospensione sinistramente ammaliante.


L’album è finito: credo che la mia moka si sia messa a gorgogliare da sola...


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* In quel periodo, Shorter licenziò ben sei (!) dischi da solista (“Night Dreamer”, “Juju”, “Speak No Evil” e i due album “The Shootsayer” e “Etcetera”, che verranno però pubblicati solo molti anni dopo, per le solite incomprensibili ragioni discografiche di cui la storia del jazz è pregna) e divenne membro stabile del “Secondo Grande Quintetto” di Miles Davis, di cui fu anche il compositore principale. Shorter spesso portava i fogli pentagrammati nella camera d’albergo di Davis, semplicemente dicendo: “Ecco, a lei, Signor Davis!”, fuggendo via spaventato. Risata di Miles. Fu, manco a dirlo, una formazione che fece la Storia del genere, sviluppando per primi il linguaggio del post-bop. 


** Verso metà degli anni Sessanta, il jazz stava vivendo un periodo di grande rinnovamento e fulgore. Da un lato erano oramai stabili e acquisite le rivoluzioni del jazz modale di Davis e Evans; dall’altro c’era l’impatto devastante del Quartetto di John Coltrane e dall’altro ancora, si incardinava il free jazz. In mezzo a questa morsa, prendendo dalla libertà del free ma cercando di darle una forma, nasceva il post bop di cui sopra. La Blue Note, che è sempre stata la casa “dell’hard bop”, soffriva, anche economicamente, di questi cambiamenti nelle tendenze musicali della musica afroamericana. Tuttavia fu encomiabile: sottoscrisse contratti con tantissime giovani promesse e riuscì a rinnovarsi. I dischi di McCoy Tyner, Joe Henderson, Shorter e molti altri, portarono in dote all’etichetta delle vere perle di jazz modale o post bop; le opere di musicisti più angolari come Andrew Hill, Eric Dolphy, Sam Rivers, Grachan Moncur III, lo stesso Shorter, Bobby Hutcherson e altri invece impreziosirono il catalogo con una serie di lavori più d’avanguardia che rappresentano oggi uno degli scrigni più preziosi e meno esplorati della storia dell’etichetta. 


*** Rispettivamente: Freddie Hubbard ha suonato per anni con Shorter nei Jazz Messengers di Art Blakey; Ron Carter e Herbie Hancock erano compagni di viaggio di Shorter nel Quintetto di Miles Davis proprio in quel periodo.


**** Nella mia mente, lo psicoterapeuta sarebbe ovviamente Woody Allen. 


***** Pezzo scritto dal fratello di Wayne, Alan Shorter. Musicista molto sottovalutato e decisamente sfortunato, collaborò con il musicista free jazz Archie Shepp negli anni 60, mentre diede alle stampe solo due dischi da solista, nel decennio successivo. Malato di schizofrenia, morirà nel 1988.



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Wayne Shorter - The All Seeing Eye (Blue Note, 1965)


Wayne Shorter - Sax Tenore

Freddie Hubbard - Tromba

James Spaulding - Sax Alto

Grachan Moncur - Trombone

Herbie Hancock - Pianoforte

Ron Carter - Contrabbasso

Joe Chambers - Batteria


Registrato da Rudy Van Gelder a Englewood Cliffs, NJ (New York) il 15 Ottobre 1965

Prodotto da Alfred Lion














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