Stoccolma,
inverno. Immersa nel buio e con il freddo che la puntella come aghi, una figura
si avvicina ad un edificio: anche se sa bene perché è li, in quel momento si
sta probabilmente chiedendo chi gliel’ha fatto fare. Con sguardo circospetto, spinge la porta del palazzo. Rispetto all'atmosfera plumbea di fuori, l'interno dello studio di registrazione è solamente poco più illuminato: l’uomo vede una luce provenire dalla sala regia e, istintivamente,
si avvicina. Mentre accelera il passo, finalmente rinfrancato dall’avere una
meta visibile davanti a sé, sente provenire dalla sala principale il suono di
un pianoforte: qualcuno sta suonando Chopin. Si ferma e ascolta: l’esecuzione
non è affatto male. Poi, all’improvviso, il panorma sonoro cambia
drasticamente: senza soluzione di continuità, dal compositore polacco si è
passati ad un blues e da quello ad un improvvisazione dai toni squisitamente
jazzistici. Il giornalista (perché questo é) si guarda intorno stupito:
incrocia il tecnico di sala, che lo guarda con una tazza di
caffè bollente in mano, un mezzo sorriso e l’espressione di uno che la sa
lunga. Il pianista che stava suonando era Esbjorn Svensson e il giornalista,
italiano, era stato spedito lì per documentare un live in studio del suo omonimo trio. A
fine concerto, l’inviato non potè fare a meno di chiedere a Svensson da dove
venisse tutto quel linguaggio sonoro, sciorinato con tanta facilità. Il pianista rispose furbescamente: “Beh, ma quello li non ero io”.
Quello
che non è Esbjorn Svensson lo si vede abbastanza chiaramente nella sua produzione
musicale: non è (solo) jazzista, ma è un appassionato di jazz che è cresciuto affianco alla madre mentre questa suonava al pianoforte brani di repertorio
classico, salvo poi dedicarsi (lui) al pop-rock. Spedito a studiare musica a Stoccolma, Esbjorn incrocerà
nella sua vita Magnus Ostrom (un batterista che se fosse nato un po’ di tempo
prima ma in Inghilterra avrebbe probabilmente entusiasmato Tony Iommi) e Dan Berglund,
ex chitarrista che aveva sposato la causa del contrabbasso con notevoli risultati...usandolo
come una chitarra. Questo incontro tra improbabili creativi forma un trio. Capite
bene come gli ingredienti della ricetta non siano propriamente quelli che di
norma il palato si attende: probabilmente fu anche questo che contribuì al grande
successo che ebbe il gruppo da un certo punto in poi della sua carriera, in un crescendo
rossiniano di popolarità che vide i tre invadere il continente europeo, in
barba alla tradizionale neutralità svedese. Il tutto facendo sbigottire la casa
discografica che li pubblicava, la tedesca ACT (“Ah, ma quindi col jazz si può vendere?”).
“Seven Days Of Falling” esce proprio nel
momento in cui la notorietà del trio è appena deflagrata, posizionando il
gruppo al centro della mappa della musica improvvisata europea, venendo
apprezzati in egual misura sia dai jazzisti sia da chi il jazz se lo filava il
giusto. D’altronde, il loro sound in equilibrio tra linguaggio dell’improvvisazione
e utilizzo di certi toni drammatici tipici della musica rock, pareva fatto dal sarto per essere ammirato trasversalmente e far cosi comincare due
mondi che avrebbero disperato bisogno di parlarsi di più. Il disco è
probabilmente il primo vero approdo nella carriera degli E.S.T., che qui
perfezionano compiutamente la loro formula alchemica: di fatto, “Seven Days Of Falling” è un grande disco
jazz che però potrebbe benissimo essere anche un disco pop rock, e uno di altissima
qualità.
L’iniziale “Ballad For The Unborn” è una lirica meditazione in tempo rubato, con le note del piano di Svensson che paiono rintocchi di un vecchio pendolo sospesi nell’aria; il suono va di poco in poco a trasformarsi nel timbro fino ad arrivare a non sembrare neanche più accomunabile ad un pianoforte, in un gioco di post-produzione che è marchio di fabbrica del trio*. Da qui in poi, obiettivamente, è un susseguirsi di pietre più o meno preziose e dove peschi, peschi bene: la successiva titletrack è uno dei pezzi più eleganti del repertorio dei tre, con un tema minimale e cantabile a cui segue una mirabile improvvisazione di altrettanto carattere, inframmezzata da degli interventi di Berglund che letteralmente elettrificano l’aria; proprio questo dialogo, cosi acusticamente diverso, tra pianoforte e contrabbasso costituisce una delle peculiarità del gruppo, quasi che uno fosse acqua e l’altro fuoco. Sempre sul versante dei brani più placidi, l’intensa “Believe, Beleft, Below” ha il sapore melodico favolistico di un racconto popolare, tanto che forse non sarebbe dispiaciuta al Grieg dei “Lyric Pieces” (ma ovviamente nessuno dica al compositore norvegese che il brano è scritto da uno svedese!); qui il fraseggio di piano fa curiosamente pensare ad un ipotetico Jarrett nato dall’altra parte dell’Atlantico, filtrato dallo stile dell’iconico pianista svedese Jan Johansson**.
Detto dei colori più morbidi del disco, nelle insenature del lavoro si trovano anche episodi più fragorosi, come la doppietta “Mingle In The Mincing Machine” e “Elevation Of Love”. La prima è marchiata a fuoco da un solo frastornante ma esaltante di Berglund, eseguito doppiando il contrabbasso acustico con un’altro elettrificato: una provocazione sonora che potrebbe rispondere all’ipotetica domanda, se mai qualcuno se la fosse chiesta, su che suono avrebbe una registrazione di Gary Peacock che improvvisa all'aperto di fianco ad un cantiere edile; la seconda, invece, filtra richiami reichiani a ritmi drum n’ bass, con gli svolazzi del piano preparato di Svensson che si stagliano sopra gli scoppi del contrabbasso di Berglund. A giudizio di chi scrive, però, il pinnacolo dell'album è costituito da “Evening in Atlantis/Did They Ever Tell Cousteau?”, dove ad un iniziale haiku pianistico di cristallina dolcezza che non sfigurerebbe in un disco di Harold Budd, segue un serratissimo schianto ritmico su cui Svensson costruisce una delle sue migliori improvvisazioni, ispirata dagli spettri tanto di Monk che di Zawinul e uniti ad una serie di fughe di chiara ispirazione bachiana. Mano a mano che il brano aumenta di intesità, il suono del pianoforte risulta sempre più distorto e filtrato, con le note che paiono incrostate di un'ipotetica salsedine sonora: una vera caduta e risalta dagli abissi, come suggerisce il titolo***.
Già, gli abissi. Si è accennato qua e là all’acqua, in questo testo: e proprio ad
essa è andato Esbjorn. Per gli E.ST. tutto si interruppe in un giorno di metà
giugno del 2008, quando Svensson si unì, in un abbraccio finale, al mare,
perendo così come aveva vissuto: esplorando.
Quando
sono stato in Svezia ho scoperto che gli svedesi, in un mirabile slancio di
autoironia, hanno dedicato il loro museo più famoso al relitto di un galeone
Reale che si era inabissato proprio il giorno della sua inaugurazione****. Ora,
non dico che a te Esbjorn debbano fare un museo, ma magari intitolarti una via
a Stoccolma o un’aula del Conservatorio, ecco, quello si.
Riposa in pace.
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Dan Berglund - Basso
Magnus Ostrom - Batteria
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* L’uso in ambito
jazzistico dello studio di registrazione come strumento era una cosa che
proprio in quegli stessi primi anni 2000 stava esplorando, pur con metodi e risultati molto diversi, anche il pianista americano Brad Mehldau. Ascoltate il suo disco intitolato “Largo”, del 2001.
** Jan Johansson è
una specie di leggenda del jazz svedese, fautore di una singolare opera di fusione tra folk scandinavo e musica improvvisata di cui l'esempio più mirabile è "Jazz pa Svenska", disco svedese di jazz più venduto di sempre. Svensson ne fu
molto influenzato.
*** A parte fare
una nota su quanto belli sono i titoli degli E.S.T., immaginifici senza essere
assurdi (a differenza delle loro copertine, orride come poche altre), aggiungo
qui che il Cousteau del titolo è probabilmente il famoso oceanografo francese,
alla cui figura è peraltro neanche troppo poco ispirato il film “Le Avventure
Acquatiche di Steve Zissou” di Wes Anderson.
**** Si tratta del
vascello Vasa, costruito per Re Gustavo II nel 1628.
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